Un compagno riluttante - marthagellhornandernesthemingway

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Un compagno riluttante

Il viaggio più famoso, insuperato e insuperabile, è quello fatto in Cina con il marito Ernest Hemingway, suo Unwilling Companion, Compagno Riluttante. Il direttore della rivista Collier’s le aveva chiesto di andare a seguire la guerra cino-giapponese – era sua opinione che il Giappone, dopo essersi unito alle potenze dell’Asse, avrebbe cominciato a distruggere l’Oriente, come stava facendo la Germania in Europa - e di fare un resoconto sull’esercito cinese in azione. A Hong Kong, dove devono trattenersi in attesa del permesso per andare in prima linea, anziché andare a caccia con il marito sulle colline circostanti, lei va in giro per la città a cercare informazioni sulle fabbriche, sui tribunali, sulle fumerie d’oppio, sui bordelli, sulle sale da ballo e da gioco, sui prezzi e sui salari. Dopo qualche settimana il permesso arriva e Martha ed Hemingway partono in aereo per Nanyang. La Seventh War Zone che devono attraversare, è un’area grande quanto il Belgio, ridotta a un’unica distesa di fango dalle piogge torrenziali. A New York, un resoconto sull’esercito cinese in azione era parso un progetto razionale, sul posto non lo è più. La vecchia Chevrolet su cui viaggiano si impantana sulla strada sterrata piena di massi, i pneumatici scoppiano con regolarità costante e ad ogni schianto entrambi trattengono il fiato per timore delle conseguenze. Sul fiume North River (Chiang Jiang) li aspetta un Chriscraft che rimorchia un sampan, sul quale passano quarantatrè ore. Poi proseguono a dorso di pony: quello di Hemingway è talmente basso che gli permette di cavalcare e camminare allo stesso tempo. Divorati da mosche e zanzare, visitano caserme e campi per parate militari, presenziano a cerimonie. In una scuola di cadetti vedono i ritratti di Goering, Mussolini e Chamberlain. Sopportano stoicamente disagi e difficoltà, anche se in un hotel di Guilin, i cui letti formicolano di cimici, Hemingway rimpiange di non avere con sé la pistola per sparare a quei luridi insetti. Arrivano in aereo a Chongqing, capitale della Cina in tempo di guerra. Martha la descrive come "grigia, informe, fangosa, un insieme di tetri edifici di cemento e di misere baracche, umida d’estate, fangosa per il resto dell’anno, sporca, puzzolente, infestata dai topi". L’unico motivo per cui è stata scelta è che è irraggiungibile.



CHIANG KAI-SHEK

Pranzano con il Generalissimo e con Madame Chiang Kai-shek. Nel 1937 i due erano apparsi sulla copertina del Time, come coppia dell’anno. Lui, magro, dritto, in uniforme grigia, tanto impeccabile da sembrare imbalsamato, è senza denti. Riportando il fatto a un impiegato dell’ambasciata americana, Martha scoprirà anni dopo che questo era un riguardo riservato agli ospiti più illustri. Incontrano anche Ciu en Lai, membro fondatore del Partito Comunista cinese, che si nasconde in città. Il regime di Chiang è brutale, corrotto e inefficiente. Il Generalissimo, interessato solo al proprio potere, non si preoccupa minimamente della miserabile condizione in cui vivono le orde di schiavi che costituiscono la maggioranza del popolo cinese e, più che i giapponesi, destinati un giorno a scomparire <<come un attacco di brufoli>>, egli teme l’insurrezione comunista. Ma questi giudizi la giornalista li esprimerà molti anni più tardi, il fatto di essere loro ospite le impedisce di farlo al momento.
 Nel gennaio 1962 Martha decide di esplorare l’Africa. Il resoconto di questo viaggio è il più dettagliato, essendo stato scritto subito dopo il suo ritorno in Europa, in una pensione di Trieste. Dietro consiglio del suo medico di Londra, che è stato in Nigeria durante la guerra con i piloti della RAF, e che considera il continente un posto orrendo, ricettacolo di tutte le peggiori malattie, si vaccina contro il vaiolo, la febbre gialla, il tifo, il colera, il tetano e la polio e porta medicine per la dissenteria e per la malaria, unguenti per le ferite e le infezioni della pelle, disinfettanti per l’acqua. Mette in valigia una borsa dell’acqua calda, un maglione, un paio di pantaloni di lana, un cappello da pescatore, le carte per il solitario e un binocolo. Parte da Douala, nel Camerun. Il paesaggio, una giungla grigioverde inospitale, interrotta qua e là da fiumi fangosi dal percorso serpeggiante e da specchi d’acqua paludosi pieni di moscerini, non è all’altezza delle sue aspettative. Dove sono le ampie pianure dorate, le montagne azzurre, gli animali selvatici vagheggiati con la fantasia? L’afa è tale che sembra di essere avvolti in una coperta umida dalla testa ai piedi. A Yaoundé, la tappa successiva, si celebra la giornata mondiale dei lebbrosi. Martha visita un lebbrosario dove si fa festa e le donne ballano il twist. Qui Schweitzer non è considerato un eroe né un grande pensatore, la sua medicina è ritenuta antiquata, la sua vita troppo pubblicizzata; vi sono altri medici meno conosciuti, che svolgono un lavoro migliore e più duro. Va anche a visitare alcune missioni cattoliche, fra cui quella di Père Moll, che le racconta le sue curiose esperienze con gli africani. Il viaggio prosegue nel Chad, un paese il cui nome l’ha sempre affascinata sin da bambina. Si ferma a Fort Laramy, oggi N’Djamena, prima di proseguire in direzione di Khartum, alla congiunzione dei due rami del Nilo. In Kenya l’horror trip sembra finito, questa è l’Africa che ha sempre sognato. E invece no. Le viene l’idea di noleggiare un Land Rover con autista per andare a visitare i parchi, così le situazioni incresciose ricominciano.

RUSSIA

  Il capitolo intitolato One Look at Mother Russia è dedicato all’incontro con Nadezda Jakolevna Chazina, autrice del libro Hope against Hope (Sperare oltre la speranza). Nadezda è la vedova del poeta Osip Emil’evic Mandel’stam, nato a Varsavia nel 1891, trasferito a Pietroburgo nel 1910 e diventato una delle figure più in vista dell’ambiente letterario russo. Osip viene arrestato nel 1934 per attività antisovietica e condannato al confino. Tradito da un amico a cui ha letto una sua poesia che bolla Stalin come assassino, nel 1938 è deportato in un lager presso Vladivostok, dove muore. Martha è impressionata dal coraggio di questa donna, testimone contro l’ingiustizia, che dopo aver sostenuto il marito per diciannove anni, ne ha dedicati trentaquattro a tenerne viva la memoria. Le scrive parole di elogio e Nadezda le risponde che sarebbe terribilmente contenta di conoscerla di persona. Nel luglio del 1970 Martha parte per Mosca, carica come un mulo dei beni che le sono stati richiesti: medicine per l’ulcera e per l’artrite, profumo Arpège, calze di nylon, uno scialle di cashmere, gonne e maglioni di lana, barattoli di marmellata d’arance, dischi di Menuhin. Non porta i libri pornografici – anch’essi richiesti - ma aggiunge di sua iniziativa alcune bottiglie di whisky, i gialli di Mc Bain e di Spillane, le recensioni del libro apparse in Occidente, fornite dall’editore. L’incubo ha inizio appena Martha mette piede fuori dall’aereo: il caldo è opprimente, l’aeroporto è un caos dove non sa dove andare a recuperare il bagaglio, i cambiavalute non cambiano la valuta, i taxi non fanno servizio – in generale, le persone a contatto con gli stranieri sembrano provare una grande soddisfazione a dire Niet - l’hotel è sulla strada per Minsk, in mezzo ai boschi... Quando finalmente riesce a raggiungere l’appartamento di Nadezda – si è fatta scrivere l’indirizzo in russo su un pezzo di carta che è pronta a ingoiare in caso di pericolo - si trova di fronte una donna piccola, tarchiata, con le gambe a forma di V, gli occhi azzurro pallido, che fuma, ansima e tossisce senza sosta. Nell’alloggio c’è un via vai continuo di amici e conoscenti e, ascoltando i loro discorsi, Martha si rende conto che il linguaggio disturbato, fatto di non sequitur, di dialoghi in cui tutti parlano e quasi nessuno ascolta, che lei aveva sempre creduto essere un’invenzione degli scrittori russi, è invece assolutamente reale. È contagiata dall’atmosfera di paura che si respira in questa città senza libri e senza giornali, dove la radio è perennemente disturbata da interferenze. Ha la sensazione di aver deluso Nadezda e i suoi amici:  non è diventata una loro seguace, non si è unita al coro di lamentele di chi sembra avere il monopolio delle sofferenze del mondo. Dopo una settimana di permanenza nella Società dello Squallore, deve respingere con forza il desiderio di chinarsi a baciare la moquette dell’aereo della British Airways che la riporta in patria. Legge con avidità l’elenco della paccottiglia che si può comprare a bordo della splendida linea aerea capitalista britannica e di una cosa è certa: non metterà mai più piede in Russia. Ma per il resto della vita citerà Nadezda e dirà che, come lei, ha cercato di riferire le ingiustizie di cui è stata testimone, perché "è dovere degli scrittori e dei giornalisti registrare gli avvenimenti, nella speranza di smascherare chi non dice la verità".

LOOKING FOR GERMAN SUNMARINES IN THE CARIBBEAN

  Nel 1942, colpita dalle cifre della guerra sul mare – in un anno i tedeschi hanno affondato ben 1.508 navi da carico degli Alleati, 71 nei soli Caraibi in due mesi – Martha propone alla rivista Collier di essere inviata nell’arcipelago per raccogliere notizie più dettagliate. Il suo sogno sarebbe quello di incontrare i sopravvissuti di una torpediniera, di scoprire una radio nemica clandestina, di individuare qualche scorta nascosta destinata ai sottomarini tedeschi o - perché no? – di avvistare un sommergibile avversario. Noleggia una barca, il Pilot, con la quale si sposta per giorni e giorni da un’isola all’altra, senza alcun risultato. Allora si ferma a Basse-Terre, capitale di St. Kitts, un villaggio così morto che le sembra di essere anche lei sepolta viva, e descrive il viaggio così come si è svolto. Il resoconto – 11.000 parole al posto delle 5.000 richieste – è molto divertente, anche se fa passare la voglia, a chi lo legge, di mettersi in cammino per una qualsiasi destinazione. Poi va ad Antigua, dove c’è una base dell’Air Force e visita gli hangar con il tetto coperto di paglia, le caserme dei piloti, la sede del quartier generale, i carri merci coperti, le passerelle di legno e i ponti di tavole. Si sposta quindi nella Guiana francese e nel Suriname, da dove spedisce l’ultimo articolo. Prima di ripartire, decide di fare un’ultima ricognizione del territorio. Noleggia una barca, risale il fiume Saramcoca – scelto perché le piace il nome - ed arriva fino a Paramaribo. Ma il tormento della sete, il prurito delle punture di insetti, la mancanza di spazio nella piccola tenda canadese mettono a dura prova il fisico e il morale. Al quinto giorno è pronta a lasciare agli esploratori - giudicati dei pazzi degni di venerazione per le doti di resistenza e di sopportazione dimostrate - l’arte di esplorare. È tuttavia contenta di aver conosciuto quei luoghi prima che l’arrivo dei dollari ne abbia stravolto la vita e la fisionomia, prima che gli hotel, i casino, le boutique, i supermarket, le lavanderie, i ristoranti e gli snack bar abbiano preso il posto degli alberi e che file di yacht siano all’ormeggio dove prima c’erano solo lagune di acqua cristallina.       

HIPPIES IN ISRAEL

  "Ciò che rende orribile un viaggio – scrive Martha nell’ultimo capitolo – è la noia". Naturalmente anche i ritardi, le malattie, la fatica, la mancanza di comodità, la tensione hanno la loro parte, ma è soprattutto la noia la maggiore responsabile degli horror trips. E non c’è bisogno di andare troppo lontano per trovarla. Basta guardare – dice - i partecipanti ai viaggi organizzati durante una visita guidata alle antichità greche o alle moschee della Persia, gli uomini dallo sguardo spento e dalle spalle curve che portano i bagagli loro e delle mogli, le coppie che siedono mute nelle sale da pranzo di hotel stranieri, i giovani genitori carichi di giocattoli, di pannolini e di bottiglie del latte, che battono le strade alla disperata ricerca di un B & B dove trovare rifugio. È pur vero che gli horror trips sono soggettivi. Una crociera, con la sua allegria organizzata, che per lei sarebbe letale, per altri è occasione di divertimento. Martha ha trovato dosi massicce di boredom presso i componenti di una comunità di hippies in Israele, con i quali ha cercato di avere, con scarso successo, un confronto di idee. Sotto l’effetto dell’hashish per la maggior parte del tempo, essi rispondono in modo vago alle sue domande e i loro argomenti sono contraddittori. Non hanno interessi di alcun genere, la loro conversazione è focalizzata sui luoghi, dall’Afghanistan all’Estremo Oriente, in cui è facile far rifornimento di hashish di qualità. Anche questa esperienza frustrante, tuttavia, è raccontata con grande ironia e partecipazione. In questo resoconto, come nei precedenti, tutto è molto vero e vissuto e il tono, pungente e satirico, non è mai derisorio. "Se invece di saltabeccare qua e là per il mondo con il vigore di un fagiolo messicano avessi dedicato un po’ di tempo ad analizzare i miei primi viaggi…" conclude con rimpianto e sottintende che in questo modo avrebbe evitato tante brutte esperienze. Per nostra fortuna non lo ha fatto. Così possiamo gustare il racconto brillante di come si sono svolte le sue disastrose spedizioni.





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